Fermata #266 - L'Italia è il vero Bitcoin-country
Tasse predatorie e burocrazia degna di 1984 di George Orwell. Il nostro Paese è il terreno perfetto per la fioritura dell'adozione autentica di Bitcoin: quella under-the-radar
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“Bye-bye Bitcoin. Cala il cripto-entusiasmo tra gli italiani: -20%. L’effetto delle tasse e dei fondi”, scriveva Repubblica lo scorso 23 settembre.
A un primo sguardo ingannevole, come spesso accade con la stampa generalista, sembrerebbe che sempre meno italiani siano interessati a Bitcoin. Ma questa è solo metà della storia: anzi, probabilmente è proprio una lettura fuorviante.
Se guardiamo oltre i dati ufficiali e ci addentriamo nelle reazioni delle persone, emerge un quadro paradossale: le stesse misure fiscali e regolamentari “anti-Bitcoin” potrebbero involontariamente star incentivando l’adozione più autentica di Bitcoin, quella fuori dai radar statali.
In altre parole, l’Italia - con la sua pressione fiscale aggressiva e burocrazia strangolante – potrebbe essersi trasformata nel paladino involontario dei principi originali di Bitcoin: disintermediazione, privacy e libero scambio nel mercato nero. Altro che El Salvador o Svizzera: il vero Bitcoin country (espressione che più volte ho definito ossimorica) potrebbe essere il nostro.
Calo di utenti o fuga dagli exchange?
Le statistiche riportate dall’Organismo Agenti e Mediatori (OAM) – che tiene il registro degli operatori di criptoattività in Italia – fotografano un forte calo nel secondo trimestre 2025 dei clienti sugli exchange regolamentati. Si parla di un -20% di detentori di criptovalute rispetto al trimestre precedente, scesi a circa 1,4 milioni.
Il controvalore in euro delle transazioni sulle piattaforme iscritte all’OAM è diminuito del 22%, attestandosi a 1,9 miliardi.
Superficialmente, questi numeri potrebbero suggerire un raffreddamento dell’interesse degli italiani verso Bitcoin e affini. Tuttavia, occorre contestualizzare questi dati.
Innanzitutto, provengono solo dai cosiddetti VASPs (Virtual Asset Service Provider) registrati in Italia. Ciò significa exchange e broker autorizzati e sottoposti a vigilanza. Se un utente sposta i propri bitcoin fuori da queste piattaforme – ad esempio verso un wallet personale o li scambia su circuiti informali – scompare dalle statistiche ufficiali. Il calo del 20% potrebbe quindi non rappresentare affatto una capitolazione dei bitcoiner italiani, ma piuttosto una loro fuga dall’intermediazione regolamentata.
Repubblica stessa ammette, nel corpo dell’articolo dietro al titolo sensazionalista, che l’imposizione fiscale sulle plusvalenze potrebbe aver spinto molti a mollare. Mollare cosa, però? Forse non Bitcoin in sé, ma le piattaforme in chiaro dove ogni mossa è dichiarata al fisco.
E’ ormai noto come la Legge di Bilancio 2023 avesse introdotto una disciplina organica sulle cripto-attività, imponendo subito una tassazione del 26% sulle plusvalenze realizzate da privati. Era stata fissata una soglia di esenzione di soli €2.000 euro annui per i guadagni: oltre quella cifra, ogni euro di profitto in criptovalute diventava imponibile. Inoltre, era stato sancito l’obbligo di monitoraggio fiscale di tutte le criptovalute detenute, ovunque si trovassero.
Ma la Legge di Bilancio 2025 ha abolito la franchigia dei €2.000 e – colpo di grazia – predisposto un aumento dell’aliquota dal 26% al 33% dal 1° gennaio 2026.
Parallelamente, sul fronte regolatorio l’Italia ha recepito e persino anticipato la stretta europea in materia di cripto-attività. Attraverso l’OAM è stato istituito un Registro speciale per gli operatori crypto: ogni exchange, broker o servizio di wallet custodial che voglia operare in Italia deve iscriversi, rispettare obblighi di antiriciclaggio e comunicare i flussi delle transazioni periodicamente. Al 30 giugno 2025 risultavano 138 operatori iscritti – un ecosistema abbastanza piccolo e facilmente sorvegliabile. Le piattaforme registrate all’OAM costituiscono dunque una sorta di walled garden dove gli utenti italiani vengono identificati, le loro operazioni monitorate e, come abbiamo visto, puntualmente misurate in statistiche trimestrali.
Riassumendo, lo Stato italiano ha lanciato un doppio attacco a Bitcoin: da un lato il fisco alza la mano a pretendere una fetta enorme di qualsiasi guadagno, dall’altro il regolatore innalza barriere burocratiche e controlli degni del sistema bancario tradizionale. Un approccio che deriva dalla mentalità statalista classica: se qualcosa sfugge al nostro controllo, va incasellato e tassato finché non smette di disturbare.
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L’effetto boomerang
Come ogni intervento pesante del governo nell’economia, anche questa stretta anti-bitcoin potrebbe aver generato conseguenze indesiderate per i parassiti che l’hanno escogitata.
Tassazioni opprimenti e burocrazia invadente hanno spesso alimentato una robusta economia sommersa. Secondo uno studio del Fmi, in Italia l’economia non osservata ha rappresentato circa il 25% del Pil in media tra il 1991 e il 2015 - record, tra i grandi Paesi Ue, che i giornali dipingono da sempre come sdegnoso, mentre per chi vi scrive si tratta di un grande vanto tricolore.
Ancora nel periodo più recente (2015-2017) l’Italia era seconda solo alla Grecia, con un sommerso stimato attorno al 20% del Pil. Tradotto: su cinque euro generati in Italia, uno sfugge ai rilevamenti ufficiali. Questa propensione italiana a battere il sistema è frutto dell’istinto di sopravvivenza: è perfettamente razionale che milioni di cittadini e imprese preferiscano il contante, il lavoro in nero, o i bitcoin non dichiarati, pur di sopravvivere al Leviatano fiscale.
Nessuno dovrebbe stupirsi se gli italiani oggi dichiarano meno su bitcoin e cercano vie alternative, con un’aliquota al 33% in arrivo sulle plusvalenze.
Privacy, disintermediazione e mercato nero
Nel contesto italiano odierno, Bitcoin sta ritrovando la sua vocazione ribelle. Ciò che altrove viene confezionato in regolamenti eleganti e partnership bancarie, qui da noi ritorna alle origini cypherpunk. Lo scenario del mercato nero che tanto terrorizza i regolatori non è altro che la manifestazione concreta di un principio: se una legge è ingiusta o oppressiva, i cittadini la eludono. È sempre successo nella storia economica.
Durante il Proibizionismo negli USA (1920-33), bannare l’alcol portò alla fioritura dei bootleggers e degli speakeasy clandestini. Allo stesso modo, iper-tassare e iper-regolamentare Bitcoin in Italia incentiva un sottobosco di transazioni non tracciate.
L’errore è di chi pensava di ingabbiare Bitcoin dentro le logiche tradizionali: registro, tasse, controlli KYC, ecc. Bitcoin nasce per disintermediare, che lo si voglia o no. Se viene ostacolato nei canali ufficiali, semplicemente trova vie alternative.
Viene dunque da sorridere quando si parla di Bitcoin Country in riferimento a El Salvador o alla Svizzera, dove le leggi favorevoli incentivano l’emersione dei bitcoin posseduti dai cittadini. E vogliamo parlare della possibilità di pagare le tasse in sats? Quale persona sana di mente vorrebbe privarsi di bitcoin per finanziare la mafia istituzionalizzata?
Il sistema italiano, pur senza volerlo, sta costringendo chi crede in Bitcoin a usarlo davvero secondo la sua natura originale. Niente integrazioni comode con le banche, nessuna pacca sulla spalla dal politico di turno: al contrario, ostilità aperta. E proprio questa opposizione obbliga i bitcoiner nostrani a fare quello per cui Bitcoin è stato creato: bypassare i gatekeeper finanziari e vivere la propria economia parallela. In un certo senso, l’Italia sta attuando una sorta di selezione darwiniana dell’utenza: i deboli di convinzione mollano (forse vendendo tutto e uscendo dal settore), mentre i più risoluti evolvono in utenti più esperti, prudenti e anonimi.
Alla fine dei conti, quest’ultimi risultano essere veri utilizzatori di Bitcoin nel senso pieno del termine, molto più vicini allo spirito cypherpunk di quanto non lo siano il turista che paga un caffè in Lightning a El Zonte o l’impiegato di Zurigo che investe in un ETP su Bitcoin in banca.
Il vero paradiso Bitcoin è il Belpaese.
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